La Verità Scomoda sullo Stretto di Hormuz e le Strategie Anti-Cina
Nel dinamico scacchiere geopolitico attuale, poche arterie marittime incarnano la tensione e l’interdipendenza economica globale quanto lo Stretto di Hormuz.
La filosofia trumpiana, sembra riemergere costantemente con una logica anti-cinese di fondo. Non si tratta solo della guerra commerciale globale, ormai quasi un classico del nostro tempo, ma di una strategia ben più ramificata. Si potrebbe persino interpretare il recente riavvicinamento alla Russia come un astuto tentativo di Washington di strapparla dall’abbraccio, sempre più saldo e ingombrante, di Pechino.
Ma se allarghiamo lo sguardo, è possibile che questa tattica anti-Cina sia la chiave – o quantomeno una delle chiavi – per decifrare anche il recente intervento militare americano in Iran? Una domanda che, diciamocelo, farà storcere il naso a molti, ma che merita una riflessione lucida.
Oltre l’attacco bellico. Isolare la Cina?
I numeri, come sempre, non mentono, anche se a volte si divertono a mascherare la realtà. Dal Golfo Persico transita appena il 3% del petrolio destinato agli Stati Uniti. Una goccia nell’oceano, verrebbe da pensare. Ma proviamo a spostare la nostra lente: per la Cina, quel passaggio è vitale, rappresentando ben un terzo del suo fabbisogno. Immaginate, con un pizzico di amaro sarcasmo, il danno che un blocco totale o parziale dello Stretto di Hormuz infliggerebbe a Pechino: dieci volte superiore a quello subito dall’America. Non è solo un incidente di percorso, è un vero e proprio infarto economico.
Le recenti, e per nulla rassicuranti, minacce iraniane di chiudere lo Stretto di Hormuz, conseguenza diretta degli attacchi statunitensi, hanno già fatto schizzare i prezzi del petrolio e del gas, con il Brent e il WTI che danzano al rialzo sui mercati internazionali. L’eventualità di una chiusura, anche se mai attuata in passato, porterebbe i prezzi del greggio a livelli che farebbero impallidire persino i bilanci più floridi, con stime che parlano di picchi fino a 200 dollari al barile, innescando una nuova e potente ondata inflazionistica globale. Ricordate settimana scorsa.
Vi parlavo del report di JPM con target 160 USD al barile, ora ovviamente si carca la mano. Un vero e proprio incubo per le economie già fragili e per le raffinerie europee, già provate da anni di incertezze. Certo, alcuni paesi come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno cercato di premunirsi, costruendo oleodotti alternativi per aggirare il blocco di Hormuz. Un tentativo lodevole, ma pur sempre una toppa su una falla potenzialmente enorme.
L’Iran, in questa delicata partita a scacchi, gioca un doppio ruolo in chiave cinese, che va ben oltre il mero transito.
- Innanzitutto, di nuovo il petrolio. Teheran produce circa 3 milioni di barili al giorno; sebbene la metà sia per consumo interno, oltre il 90% della quota restante è acquistata da Pechino. Un legame energetico così profondo che persino il Segretario di Stato americano, Marco Rubio, ha esortato la Cina a esercitare pressioni su Teheran. Un blocco di Hormuz, sebbene possa sembrare una mossa muscolare, sarebbe un “suicidio” per l’Iran stesso, impattando devastantemente le proprie esportazioni e, di conseguenza, la sua unica ancora di salvezza economica in un contesto di sanzioni.
- In secondo luogo, e qui entriamo nel cuore della “Nuova Via della Seta“, l’Iran è un tassello fondamentale, quasi una gemma incastonata nella rotta terrestre della Belt and Road Initiative. Questa megalomane impresa cinese vede nell’Iran il passaggio chiave dall’Est, che attraverso la Turchia si collega direttamente all’Europa. L’inaugurazione di una ferrovia diretta Cina-Iran, parte integrante di questo progetto titanico, non è solo un avanzamento infrastrutturale; è un messaggio chiaro a Washington, un tentativo di aggirare le sanzioni e la supremazia navale statunitense, facilitando il flusso di merci cinesi verso l’Europa e, non da ultimo, il petrolio iraniano verso la Cina.
Quindi, secondo me, osservando il quadro completo di “petrolio e seta“, si può intravedere una coerente e ben orchestrata strategia anti-cinese della Casa Bianca. Una strategia che, per quanto complessa e a tratti spietata, mira a colpire Pechino nei suoi punti più vulnerabili, a partire dalle sue forniture energetiche e dalle sue ambizioni geoeconomiche.
Ennesima occasione per farci capire che noi rischiamo sempre e solo di vedere cosa c’è in superficie… Ma bisogna andare a cercare più in profondità, come in questo caso.
STAY TUNED!