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MARKET UPDATE: cosa sta capitando concretamente?

Scritto il alle 14:45 da Danilo DT


Giornate intense tanto che non sono nemmeno riuscito ad andare al Salone del Risparmio, un appuntamento che mi sono sempre riservato anche per rivedere un po’ di amici e colleghi. Però con questi mercati e questi “wind of changes” bisogna anche essere gestori di anime oltre che di portafogli.

Questa sera, e lo faccio soprattutto per me, voglio provare a mettere un po’ di ordine anche se non è facile.

Dunque, la scorsa settimana abbiamo assistito a un vero e proprio triplo salto mortale carpiato dei mercati, con un’impennata che ha fatto gridare al miracolo dopo l’annuncio della Casa Bianca riguardo a una tregua di 90 giorni sui dazi commerciali, Cina esclusa, ovviamente.

L’S&P 500 ha fatto un bel salto, passando da un timido 4983 all’esuberante 5363 in un battito di ciglia (o meglio, in tre giorni lavorativi, ma il concetto è quello). Tuttavia, penso di poter dire che non è ancora il momento di stappare lo champagne e dichiarare la vittoria. Anzi, andiamo oltre il titolo sensazionalistico sui dazi per capire le reali motivazioni di questo cambio di rotta e, soprattutto, cosa potrebbe significare per i mercati e l’economia nel prossimo futuro.

Nonostante il sollievo momentaneo, la verità è che, al di là dei titoli roboanti e dei movimenti di mercato degni di un film d’azione, la sostanza non è cambiata poi molto rispetto all’annuncio iniziale dei dazi del 2 aprile. Certo, la tariffa media effettiva è stata leggermente ridimensionata, passando da un comunque considerevole 22% a un più “gestibile” 17%. Ma diciamocelo chiaramente, è sempre un aumento notevole rispetto all’attuale misero 3%, un incremento che con ogni probabilità si farà sentire sulla crescita economica, sui margini aziendali e, di conseguenza, sulle tasche dei consumatori.

E qui veniamo al bello. La probabilità di una recessione, sebbene leggermente diminuita rispetto a prima della “pausa tariffaria”, rimane comunque tutt’altro che trascurabile, attestandosi intorno a un confortante (si fa per dire) 33%. Gli economisti statunitensi di Morgan Stanley Research, gente che non si diverte a fare previsioni a caso, hanno nuovamente rivisto al ribasso le stime di crescita del PIL per il 2025 e il 2026, portandole rispettivamente a un misero 0,6% e a un ancor più desolante 0,5%. Insomma, non proprio numeri da far saltare di gioia.

E poi ovviamente la FED ieri sera:

«Potremmo trovarci in uno scenario nel quale i due obiettivi del nostro mandato sono in tensione» (Powell)

Crescita e inflazione, ovvio. Infatti l’aumento dei dazi sulla Cina, in particolare, rischia di essere una bella spina nel fianco per la crescita statunitense. Gli analisti indipendenti di Pantheon Macroeconomics, che non sono esattamente dei novellini, stimano che la quota di esportazioni statunitensi verso la Cina, attualmente intorno al 7%, potrebbe tranquillamente azzerarsi. Questo, tradotto in soldoni, significherebbe una potenziale riduzione di circa 35 punti base della crescita del PIL degli Stati Uniti. Un bel colpo, non c’è che dire.

Nel frattempo, è altamente probabile che gli utili aziendali subiscano un calo a causa della diminuzione della domanda globale e di margini di profitto sempre più risicati. E come se non bastasse, secondo il Budget Lab di Yale, l’onere domestico di queste tariffe si tradurrà in una media di 4.700 dollari all’anno per famiglia. Praticamente un secondo mutuo, ma senza la gioia di avere un nuovo divano.

Ma la vera chicca, la spia che ci dice che qualcosa non va, arriva dal mercato dei Treasury. E di questo ho parlato copiosamente nei giorni scorsi.

Mentre le montagne russe del mercato azionario hanno catturato l’attenzione di molti investitori, sono state in realtà le turbolenze nel mercato dei titoli di Stato a costringere l’amministrazione Trump a fare marcia indietro, almeno temporaneamente, sulla maggior parte dei dazi reciproci. La volatilità obbligazionaria è schizzata alle stelle, i rendimenti dei Treasury sono aumentati bruscamente e il premio di rendimento che gli investitori richiedono per detenere obbligazioni più rischiose, il famigerato “spread creditizio“, si è ampliato a dismisura. Questi movimenti, cari miei, potrebbero segnalare rischi ben più ampi di una semplice recessione o di un’impennata dell’inflazione. Consideriamo alcuni punti:

L’aumento dei tassi dei Treasury a lungo termine rappresenta una seria minaccia di costi di finanziamento più elevati non solo per le imprese, ma anche per il Tesoro degli Stati Uniti. Con il Tesoro che quest’anno ha in programma di rifinanziare la bellezza di oltre 10 trilioni di dollari di debito statunitense, l’impennata dei tassi rende l’operazione decisamente più costosa. E con un deficit di bilancio già fuori controllo, tassi più alti e, di conseguenza, maggiori spese per interessi potrebbero seriamente limitare le mosse di Washington in termini di politica fiscale. Questo include, con ogni probabilità, le ambizioni dei legislatori statunitensi riguardo a ulteriori tagli fiscali.

Il cambiamento delle dinamiche della guerra commerciale potrebbe influenzare significativamente il flusso di capitali verso gli Stati Uniti, il che, a sua volta, potrebbe portare a un indebolimento della domanda estera di titoli del Tesoro e a una maggiore volatilità valutaria. In particolare, la Cina detiene circa un sesto dei titoli del Tesoro statunitensi in mani straniere. Un forte calo della domanda da parte di Pechino, in un contesto di crescenti tensioni commerciali, spingerebbe inevitabilmente i tassi al rialzo, aumentando ulteriormente i costi di finanziamento. Un vero circolo vizioso, insomma.

Infine, serpeggia tra gli investitori una crescente preoccupazione che l’amministrazione non stia facendo abbastanza progressi nella riduzione del debito e del deficit degli Stati Uniti, rendendo sempre più difficile attuare tagli fiscali economicamente stimolanti che vadano oltre una semplice proroga dell’attuale Tax Cut and Jobs Act. Sembra quasi che si stia navigando a vista, sperando che il vento cambi direzione. Intanto la BCE taglia di 25bp. Si apre il divario tra l’operatività di Francoforte e New York.

Ci tocca prepararsi a una volatilità persistente, visto che la politica tariffaria è in continua evoluzione. Evitare reazioni impulsive dettate dai titoli sensazionalistici. Piuttosto, mantenere un portafoglio ben diversificato ed equilibrato, concentrandoci sugli obiettivi finanziari a lungo termine e su un’asset allocation strategica. Potrebbe essere saggio considerare di aumentare le riserve in strumenti a reddito fisso a breve termine, incrementando al contempo l’esposizione a investimenti privati e asset reali.

In attesa della prossima puntata della “Saga Trump”.

STAY TUNED!

Danilo DT

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